Una sera in corsia d’ospedale

Una sera in corsia d’ospedale

Una sera in corsia.

Potrebbe essere il titolo di un documentario o di un telefilm che dura al massimo mezzora.

In effetti la mia serata in corsia, nel reparto di riabilitazione, la vivo come in un telefilm, con attori principali (i malati ed io) i co-protagonisti (gli altri clowns ed i parenti) e le comparse (infermieri, dottori e operatori socio-sanitari).


La scenografia è sempre la stessa: corridoi pieni di carrozzine vuote, ancora

calde dei corpi inermi degli occupanti, parenti che attendono di poter far

visita ai propri cari, carrelli pieni di lenzuola, guanti e prodotti

disinfettanti, letti immacolati che accolgono i vari attori che si stanno

preparando ad affrontare la notte che viene.


Il copione cambia ogni sera, non lo puoi memorizzare durante la giornata, non puoi

ripassare le parti: è inutile, cambia sempre.

Cambia perché a volte cambiano i protagonisti, cambia la situazione, cambia l’atmosfera che respiri e a cui ti aggrappi come un faro per iniziare quello che a volte è un banale dialogo

tra le due parti.

A volte il monologo del clown trova risposte, a volte invece, a causa della gravità dell’altro protagonista, il monologo rimane da solo.
A volte entri in una stanza e trovi persone che sono sole, i parenti sono già andati via o
proprio non sono venuti a fare loro visita.

Vi sono attori che non parlano, bloccati nel loro mondo che esce solo dagli occhi,

l’unica parte del loro corpo che emette emozioni.

Hanno gli occhi sbarrati, non sai se per la paura di quello che stanno vivendo o per la voglia

di trasmettere quello che sentono.

Con difficoltà emettono a volte dei rumori gutturali, la volontà di esprimersi si

ferma alla gola.

Ti vien voglia di prendere le loro mani, abbracciarli, dire a loro che va, che andrà tutto bene e che quello che stanno vivendo è solo un sogno.
Ma rimani lì, immobile, con gli occhi nei loro occhi, con le anime che si cercano e che si parlano.

È una sensazione strana, di impotenza, quella che ti scivola dentro; vorresti parlare

con loro, farli sentire delle farfalle che volano libere nell’aria immobile

della stanza.


Invece speri che il tempo passi più velocemente possibile per poter staccare il contatto

visivo e ritornare alla vita agitata che noi “normali” chiamiamo “vita normale”.


Loro sono lì immobili, se una mosca vola sul loro naso, rimane lì fintanto che non scorga,

con i suoi grandi occhi, qualcos’altro di più interessante su cui appoggiare le

zampette.

Cosa pensano queste anime? Cosa provano, a parte il dolore del distacco del conosciuto?
Fanno viaggi immaginari o rivivono il loro passato?
Il loro pensiero è su come realizzare i 
sogni di bambino oppure stanno pensando alle proprie speranze di adulto?

Non lo saprò mai.

Quando il regista della nostra vita dichiara la fine della puntata, noi “attori che si

muovono” non siamo molto entusiasti, non andiamo a brindare per aver finito le

riprese della puntata del giorno.

Ci guardiamo negli occhi con la consapevolezza del nostro vivere di “attori che si muovono”.

E con la speranza viva di rivedere miglioramenti, in “questi attori che non si muovono”,

la settimana seguente.

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